Sono al centro del conflitto che sta estenuando la nostra scuola. Due visioni opposte di come fare scuola, e la difficoltà di trovare un compromesso.
Non passa giorno, in qualunque sala docenti italiana, che non si discuta di conoscenze e competenze. Queste due paroline, che sembrano fatte apposta per generare polemiche, si riferiscono a due modalità di organizzare la didattica, cui corrispondono due visioni opposte su come dovrebbe essere la scuola del presente e del futuro.
La didattica per conoscenze è il modo più classico di organizzare l’attività scolastica, ed è la didattica che ha subìto chiunque abbia frequentato la scuola entro gli anni Duemila: lezioni frontali interminabili, indicazioni precise sulle pagine da studiare, valutazioni basate su verifiche scritte o prove orali, programmazione organizzata su unità didattiche legate alla struttura dei libri di testo, verifiche orali e prove scritte in cui il voto è determinato da ciò che lo studente ha studiato dai libri o ha compreso a lezione. In questa modalità didattica l’insegnante rappresenta l’autorità dell’apprendimento: è lui che decide cosa e come lo studente deve apprendere, e la sua sorte al termine dell’anno scolastico.
Una didattica a tre dimensioni
Dall’altro lato c’è la didattica per competenze, che si basa su un concetto più ampio di sapere, e che riguarda anche il modo con cui queste conoscenze vengono poi utilizzate.
Secondo il prof. Paolo Pendenza, presidente dei Dirigenti scolastici del Trentino, dirigente del Liceo “Rosmini” di Rovereto e grande sostenitore dell’innovazione nell’insegnamento, la didattica per competenze può essere definita una “didattica tridimensionale, perché è composta da tre componenti. Le conoscenze, l’applicazione delle conoscenze e gli atteggiamenti verso la conoscenza”.
La prima dimensione, quella delle conoscenze, riguarda la quantità di informazioni in possesso dello studente. Lo studente deve innanzitutto conoscere i contenuti della materia. Molti detrattori pensano che la didattica per competenze renda gli allievi meno preparati dal punto di vista dei contenuti. Ciò non è vero: non è possibile creare competenze se lo studente non domina i contenuti della materia trattata. Dice Pendenza: “Conoscenze e competenze non sono in opposizione, questo deve essere chiarito”.
La seconda dimensione è quella dell’applicazione delle conoscenze in diversi contesti. “I contenuti non vanno solo saputi così come vengono presentati, ma devono essere contestualizzati in ambiti differenti”, continua Pendenza. Per fare un esempio, se si apprende una formula matematica, lo studente deve poi saperla applicare in fisica. In ambito umanistico, la conoscenza di un periodo storico deve consentire di inquadrare un brano letterario o il pensiero di un filosofo nella sua epoca di riferimento, cogliendone aspetti comuni e differenze. Ciò consente al ragazzo di imparare in un contesto interdisciplinare, condizione fondamentale per lo sviluppo del senso critico.
La terza dimensione è quella che viene chiamata degli atteggiamenti, che cerca “di stimolare curiosità e motivazione nei confronti dello studio”, adottando adeguate strategie.
A queste tre dimensioni la didattica per competenze prevede lo sviluppo delle cosiddette soft skill: si tratta di competenze trasversali alle tre dimensioni qui descritte, e che riguardano il metodo di apprendimento e la trasmissione del proprio sapere agli altri. Saper studiare, ad esempio, è un obiettivo che riguarda tutte le materie, oppure la capacità di ricavare informazioni, con cui si è in grado di valutare la qualità delle fonti di riferimento. Vengono poi sviluppate competenze come lavoro di team, attraverso la risoluzione di problemi lavorando in gruppo, o il public speaking, il parlare in pubblico.
Come applicare la didattica per competenze
Ma come si applica questo nuovo impianto didattico?
La didattica per competenze obbliga la scuola a rivedere alcune ritualità consolidate, il che è spesso la miccia di infuocati dibattiti.
Uno dei punti più controversi è la perdita di centralità della lezione frontale. “Molti pedagoghi concordano sul fatto che la lezione frontale sia un metodo trasmissivo che dal punto di vista pedagogico non è fra i più efficaci” dice Pendenza. Gli studenti sono costretti a guardare la nuca dei loro compagni, e non vengono stimolati a guardarsi fra loro. La pedagogia invece “ci dice che il sapere nasce dalla condivisione, dal dialogo, dal porre domande e dal cercare soluzioni. Lo studente deve avere un ruolo attivo nell’apprendimento. Per applicare questi principi bisogna far parlare gli studenti fra loro, per cui è necessaria una diversa configurazione della classe”. Per questo motivo, in alcune scuole vengono utilizzati i banchi triangolari o trapezoidali, che si possono facilmente spostare, favorendo i lavori di gruppo e la collaborazione fra gli studenti.
In questo modo essi vengono stimolati a costruire conoscenza: dialogano, si aiutano, trovano insieme delle soluzioni ai problemi proposti.
Innovazioni di questo tipo, però, non sempre vengono accettate con favore dai docenti. Pendenza, ad esempio, racconta di aver fatto togliere le cattedre dalla scuola di Borgo Valsugana, dove è stato dirigente fino al 2018/19, per favorire nuovi modi di insegnare.
Le reazioni sono state le più disparate. “I docenti hanno reagito in modi diversi. Alcuni erano contenti, la maggior parte si è mostrata abbastanza neutra sul tema, qualcuno, invece, si è arrabbiato tantissimo e non ha mai accettato l’iniziativa: per alcuni insegnanti la cattedra evidentemente rappresenta un simbolo di autorità, e privarsene significa sminuire il ruolo docente, ma si tratta di una minoranza”.
L’iniziativa ha acceso diverse polemiche per come è stata raccontata dai giornali: sembrava che si volesse mettere in difficoltà gli insegnanti. “In realtà non era così: togliere le cattedre come iniziativa fine a se stessa non ha nessun senso. Se invece è inserita in un contesto di anni ed anni di sperimentazione didattica, ecco che questo diventa un elemento fondamentale per la costruzione di una scuola più efficace e più vicina agli studenti di oggi”.
In buona sostanza, si vuole rompere quella struttura rigida della disposizione della classe nel suo formato classico, favorendo configurazioni differenti. Inoltre, in alcune scuole è stata organizzata la rotazione degli studenti fra le aule ogni ora, un po’ come nelle scuole americane. La creazione di aule dedicate a materie specifiche consente un utilizzo più efficiente degli spazi e dei materiali scolastici.
Didattica per competenze come forma di inclusione scoastica
La didattica tradizionale spesso è stata oggetto di critiche perché da un lato tende a ghettizzare gli studenti in difficoltà, dall’altro risulta noiosa per quelli più brillanti.
A questo proposito, la didattica per competenze ha fatto proprio il concetto di programmazione personalizzata: la didattica deve sapersi adattare ai ritmi di apprendimento di ogni singolo studente, evitando che qualcuno possa sentirsi ghettizzato rispetto agli altri.
Ciò è ancor più importante per gli allievi con disturbi di apprendimento (dislessia discalculia, disortografia e disgrafia), che sono fortemente penalizzati dalla didattica tradizionale. Fortunatamente, la legge obbliga le scuole ad attuare una programmazione personalizzata (di cui abbiamo parlato in QT del febbraio 2016) che si basa, fra le altre cose, sulla didattica per competenze.
Ma come si fa a realizzare una cosa del genere? Secondo Pendenza una enorme risorsa è costituita dagli studenti stessi: “Se si crea un clima di collaborazione in cui gli studenti si aiutano, valorizzando le loro diverse capacità, si può eliminare questa separazione netta tra chi è più bravo e chi non lo è. Chi ha capito qualcosa prima degli altri può aiutare i compagni in difficoltà”.
Questo approccio da un lato è una grande opportunità per i ragazzi in difficoltà, che possono avvalersi di un aiuto supplementare. Dall’altro consente di attivare un meccanismo vantaggioso per i più brillanti, i quali comprendono meglio l’argomento spiegandolo ai propri compagni. È un meccanismo che capita spesso anche agli insegnanti, e che quindi può essere applicato agli studenti.
In questo contesto, è chiaro che il ruolo dell’insegnante cambia radicalmente. Il deus ex machina che si limita a preparare la lezione e spiegarla è ormai inadeguato alla scuola di oggi: se lo scopo è trasmettere nozioni, gli studenti possono trovare online tutti i contenuti della lezione, vanificando lo sforzo del docente.
Al contrario, l’insegnante deve scendere dal piedistallo in cui lo ha posto la didattica tradizionale ed iniziare ad ascoltare i propri studenti: solo così riuscirà a facilitare il loro apprendimento e manterrà quel ruolo di centralità nel processo formativo che oggi sembra aver perso.